di Giada Fazzalari
L’affaire Paragon, e cioè l’utilizzo illegittimo del software israeliano contro giornalisti e attivisti, ha messo in evidenza una rete di spionaggio che, probabilmente, non si limiterà ai nomi che oggi già conosciamo, a partire da quello di Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, la testata che, più volte, ha prodotto inchieste di grande valore giornalistico che hanno avuto conseguenze anche sul piano politico. Come quella di “gioventù meloniana”, che ha prodotto un terremoto in quella organizzazione giovanile in cui la Presidente del Consiglio ha militato per anni. Qualcuno ha visto il nesso tra lo spionaggio e le inchieste sgradite al governo. Cancellato, in questa intervista, specifica che l’unica bussola fino ad ora seguita è stata quella di basarsi sui fatti, come ogni giornalista serio dovrebbe fare. In ogni caso, si tratta di una questione molto delicata ed inquietante, che mina alla base i principi di democrazia di cui è fatta la nostra Costituzione. Ma ogni giornalista che crede in quei princìpi di democrazia ha il dovere di non spegnere i riflettori su questa vicenda. Perché o fermiamo adesso questo abuso, o la diga potrebbe rompersi e non ricomporsi mai più.
È passato un mese da quando sei stato avvisato con un messaggio che eri stato spiato con software spia di Paragon Solution e la vicenda presenta ancora molti profili oscuri…
«È quasi tutto oscuro allo stato attuale, anche già per la natura stessa dell’attività di spionaggio. Se non ci fossero state falle, errori o se non ci fosse stato qualcosa che poi è andato storto, io sarei stato ancora oggi ignaro di tutto».
Quando hai realizzato di essere stato spiato, cosa hai pensato?
«Al netto di tutte le analisi che abbiamo fatto e che faremo, ad oggi non so né quando, né quanto, né soprattutto da chi e perché sono stato spiato. Resta un forte senso di indeterminatezza. E poi c’è la politica che ci ha messo del suo. È stata estremamente reticente nel fornire informazioni. Siamo di fronte ad un governo che prima dice che nessuno è stato spiato e poi si scopre da Paragon che c’era un contratto con l’Italia, interrotto non appena la notizia dello spionaggio è stata resa pubblica. Poi si viene a conoscenza dei soggetti in possesso del contratto da indiscrezioni fatte filtrare con la stampa e raramente dando risposte ufficiali. In seguito si è deciso di mettere il segreto di Stato che poi un ministro viola il giorno dopo. E infine si affida il caso al Copasir che di fatto, per sua natura, possiede informazioni secretate che non prevedono sedute pubbliche».
Una condizione che suggerisce quantomeno la mancanza di lucidità…
«Da un lato l’attività di spionaggio è strettamente invasiva ma difficile da riconoscere nei modi e nei termini in cui è stata svolta. Dall’altra però la politica sta facendo di tutto per essere elusiva e per non aiutarci a scoprire le cose. Sembra più intenzionata a discolpare se stessa, anziché aiutare le persone che sono state spiate a sapere qualcosa in più».
Ci spieghi meglio quali sono ad oggi gli elementi sul tavolo o le possibilità dentro le quali si è verificato lo spionaggio?
«Data la situazione attuale, con i servizi segreti che dicono che nessuno è stato spiato, con Paragon Solution che però ci fa sapere che un contratto è stato interrotto o sospeso con l’Italia, con le maggiori procure italiane e le quattro forze di polizia che dicono di non avere mai avuto neppure il contratto con quella società, in sostanza le possibilità sono queste: la prima è che io sarei indagato per terrorismo internazionale o che rappresenterei una grave minaccia per la sicurezza dello Stato. La seconda possibilità è che ci stia spiando una potenza straniera; la terza possibilità è che qualcuno stia mentendo, perché tra coloro che dicono di non avere mai spiato, poi di fatto qualcuno lo stava facendo. E l’ultima possibilità è che quello strumento, che è un’arma d’offesa alla stessa stregua di un bazooka o un carro armato, sia sfuggito al controllo di chi ha firmato il contratto per acquistarlo».
Alcuni osservatori hanno trovato il nesso diretto tra le inchieste non gradite al governo di Fanpage, come quella sulla gioventù meloniana, con lo spionaggio. Tu che idea ti sei fatto?
«Questa a mio avviso è una speculazione che lascia il tempo che trova. Io rimango ai fatti e ad oggi non sappiamo chi sia stato. Sarebbe come decidere che c’è una tesi, con un mandante, con pochi pezzi di un puzzle che non sappiamo neanche quanti pezzi abbia».
Però l’impressione è che si stiano superando dei limiti che un tempo erano ritenuti invalicabili. Spiare giornalisti, attivisti delle Ong, persino sacerdoti che sostengono l’accoglienza ai migranti; quanto pesa tutto questo sulla qualità della democrazia?
«Pesa tanto. È una di quelle cose che se si rompono, non le aggiusti più. A me spaventa che questa vicenda passi in cavalleria. Potremmo non scoprire mai chi mi ha spiato, però questo non diminuisce la gravità di quello che è successo. Tutto avrei voluto tranne che trovarmi in una situazione del genere, e se si trattasse di qualunque altro giornalista, te lo direi con la stessa enfasi. Il rischio è che si minimizzi o che si faccia passare che essere spiati è una cosa normale, che capita a tutti i giornalisti italiani, perché tanto così funziona».
Ma non è così, in realtà.
«No, tu sai di essere spiato nel momento in cui sei spiato. Quando te lo dicono è come se una persona abbia abitato in casa tua, non sai per quanto tempo e tu non te ne sei mai accorto. Non è una bella sensazione dal punto di vista umano. Spiare un giornalista, specie se in una democrazia, è una cosa gravissima e lo è ancora di più che avvenga con uno spyware del genere che entra nel tuo telefono e ne prende completamente il controllo».
Qualcuno ha anche detto che sia a rischio la libertà di stampa.
«Io non lo penso. Lo provo sulla mia pelle: non mi sento minimamente intimidito da una cosa di questo tipo, piuttosto mi sento violato dal punto di vista professionale. La libertà di stampa è a rischio nelle terre di mafia, dove un giornalista locale non può scrivere niente che non sia gradito da chi comanda in quel posto, altrimenti rischia di morire».
Il fatto che la Presidente del Consiglio Meloni non si sia espressa chiaramente sulla vicenda, come lo valuti? Ti aspettavi un suo intervento?
«Sì, me lo sarei aspettato. Io penso che tra i compiti istituzionali di un Presidente del Consiglio ci sia anche quello di intervenire quando succedono fatti gravi di questo tipo. Qualcosa avrebbe potuto dire, di minimamente empatico nei confronti di chi li ha subiti, anche se si tratta di persone che percepisci come ostili alla tua attività politica. Che questa cortesia istituzionale sia venuta meno è un po’ sconfortante. Mi chiedo: se la stessa sorte fosse toccata a un giornalista di area, la reazione sarebbe stata così indifferente?».
Cosa dovrebbero fare i giornalisti perché questa vicenda non cada nel dimenticatoio?
«Mantenere alto il livello di attenzione e non mollare su questa vicenda. Pretendere chiarimenti e non lasciarci soli a chiederli. L’unico auspicio che mi sento di avere».