Meno manettara, più giusta: ecco la giustizia che vogliamo

di Lorenzo Cinquepalmi

La Costituzione della Repubblica contiene un’idea di giustizia che è quello che vorremmo vedere realizzata tutti i giorni nella nostra società, nei nostri tribunali, nelle caserme di polizia. Vorremmo che veramente il processo fosse giusto, animato dal contraddittorio tra parte tutte poste sullo stesso piano di parità davanti a giudici assolutamente indipendenti, sia dal potere politico che da quello economico o corporativo, liberi anche da loro stessi in modo da giudicare solo secondo coscienza senza condizionamenti di nessun tipo. Vorremmo che chi è accusato di un reato sia liberato dal peso di questa condizione molto rapidamente, con una condanna o un proscioglimento, ma senza che la rapidità si trasformi in sommarietà o pregiudizio. Per realizzare questo sogno di giustizia, che è nostro oggi esattamente come lo fu dei padri costituenti quasi ottanta anni fa, bisogna a nostro avviso riformare profondamente prima di tutto l’idea di giustizia radicata nelle menti dei cittadini. Bisogna che diventi patrimonio comune che sono materia penale solo le più gravi violazioni del diritto delle genti, soprattutto quelle che coinvolgono l’incolumità personale, lasciandoci alle spalle la pulsione a trasformarci in comari sferruzzanti ai piedi del patibolo, assetate di dolore. Chi sbaglia paga è una regola aurea, ma in che ambito si giudicano gli sbagli e come si puniscono gli stessi è uno dei parametri su cui si misura la civiltà di un popolo. E noi abbiamo ancora troppa sete di manette e di galera per poterci considerare veramente civili. Nella nostra Costituzione la pena è prevista soprattutto come mezzo di recupero nella società di coloro che hanno violato il patto di coesistenza, mentre la mentalità corrente è ancorata alla pena come afflizione, come punizione corporale e morale. Di conseguenza la concreta amministrazione della giustizia da parte dei figli di quella mentalità risente troppo degli istinti così platealmente sfogati dal camerata Delmastro, purtroppo sottosegretario del guardasigilli nell’attuale governo, e si traduce nel dolore di eccessi di carcerazione con punte di ferocia, sovraffollamento, vanificazione dello scopo rieducativo. E l’inclinazione inevitabile di una parte dei magistrati a lisciare il pelo a questi istinti forcaioli ha finito col generare una giustizia di cui vergognarsi, in cui le carceri traboccano, in cui ci sono mille innocenti all’anno che si fanno la galera senza meritarla, senza aver fatto nulla di male. Sogniamo un processo in cui l’accusa sia rappresentata da magistrati indipendenti da condizionamenti e assolutamente garantiti nella loro autonomia, davanti a giudici altrettanto indipendenti soprattutto dall’accusa ma altrettanto da ogni condizionamento sociale e mediatico. Sogniamo un sistema processuale che imponga di andare a processo in un tempo certo e breve dal fatto che si giudica. In cui gli imputati vadano in galera solo dopo la condanna definitiva e siano carcerati solo se concretamente pericolosi per l’integrità fisica dei loro simili; un sistema in cui chi non ha sparso, direttamente o indirettamente, il sangue dei suoi simili sconti una pena diversa dal carcere, perché il percorso di ripensamento dei propri errori se non si è lesa l’incolumità della persone è ugualmente utile in detenzione domiciliare o in altre forme alternative alle sbarre. Sogniamo una giustizia in cui siano materia penale solo dei reati veri e non tutti gli illeciti immaginabili, perché ingolfare i tribunali di procedimenti per fatti che possono restare fuori dal circuito penale significa far diventare i processi un’ordalia e, qualche volta, una roulette in cui la differenza tra sommersi e salvati risulta casuale se non, peggio, determinata da anonime manine opache. Vorremmo, vogliamo e vorremo che venissero a compimento tutte le riforme che disorganicamente sono invocate da troppi anni: la riscrittura del codice penale, l’armonizzazione delle pene, la previsione della detenzione domiciliare come pena autonoma irrogata direttamente dal giudice del processo, il superamento dell’obbligatorietà teorica dell’azione penale e l’adozione della politica criminale con delibera parlamentare, la semplificazione dei riti, la separazione definitiva tra chi accusa e chi giudica, la rapidità dei procedimenti giudiziari, l’effettiva funzione rieducativa delle pene con la concreta realizzazione dei principi costituzionali e delle leggi sul reinserimento dei condannati nella società. Quante cose vorremmo. Ma soprattutto, vorremmo che gli italiani facessero entrare nel loro cuore, una volta per sempre, l’idea che giustizia non è vendetta, ma ricucitura di un tessuto lacerato, un tessuto di cui fanno ugualmente parte rei e vittime. Una riconciliazione senza la quale la violenza privata genera violenza di Stato, che a sua volta alimenta nuova violenza in un cortocircuito che distrugge la società e la sua capacità di progredire.

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