Meloni, Ventotene e quell’inconfessabile complesso di inferiorità per l’eroismo

di Fabio Martini

A proposito di banalità del male che diventa virale: per giorni e giorni quasi tutti i media hanno ripetuto che l’uscita estemporanea della presidente del Consiglio sul Manifesto di Ventotene era immaginata a tavolino per spostare i riflettori dalle divisioni nel centrodestra. Come se nella tambureggiante striscia informativa di questi tempi oscurare una notizia per due ore servisse a qualcosa. La vera molla di Meloni era un’altra: la presidente del Consiglio mal sopporta le lezioni che ogni giorno le impartisce la sinistra, che talora – in effetti – può risultare saccente. E dunque Meloni, quando può, prova a ribaltare le accuse, ma su Ventotene la presidente del Consiglio è andata oltre la cronaca: ha pensato di impartirla lei una lezione di storia alla sinistra. Ma la storia bisogna conoscerla o quantomeno rispettarla. Per ottant’anni anni generazioni di storici, di politici italiani ed europei hanno letto tutti il Manifesto di Ventotene per quel che vi era scritto: un inno alla “libertà” dei popoli, al “valore permanente dello spirito critico”, le indicazioni profetiche (la moneta unica, la difesa comune, i rischi del nazionalismo imperialista) e dunque avere estratto la breve parte, lontana nel tempo e morta, scritta mentre l’esercito nazista avanzava in tutta Europa, è stato un espediente greve che equivale a quanto scrisse il cardinale Richelieu: “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare”. In realtà attribuendo al Manifesto un intento autoritario, Meloni ha provato a rigettare oltre la barricata l’accusa “classica” che di solito investe la destra. Come dire: invece di ricordarmi i miei antenati, pensate ai vostri. Un modo per galvanizzare i “suoi” elettori che su questo versante si ritrovano sempre sulla difensiva, in coabitazione con nostalgie poco edificanti. E difatti Meloni, dovendo rilanciare, ha chiosato: “La sinistra è nostalgica!”. Guarda caso: ha usato proprio il termine che la sinistra ripete spesso per etichettare la destra. Ma quella sortita così pretestuosa sul Manifesto di Ventotene è ispirata anche da una frustrazione per una virtù molto ambita a destra, l’eroismo. E in effetti furono eroi quegli antifascisti che, per libera scelta interiore e senza costrizioni, dedicarono la loro giovinezza e in alcuni casi la propria vita, nella speranza di abbattere una dittatura. E non invece per difenderla, come i fascisti, o come i repubblichini. O per rimpiangerla, come fecero per molti anni, i missini. Gli eroi, nella storia italiana, sono stati i partigiani, i combattenti per la libertà: ecco il complesso di inferiorità che perseguita la destra post-fascista italiana e che Meloni ha provato ad esorcizzare. Gli autori del Manifesto di Ventotene – come è universalmente noto – erano tre combattenti per la libertà avversi ad entrambe le dittature. Altiero Spinelli era approdato al confino di Ventotene dopo aver trascorso ben dieci anni nelle carceri fasciste e dopo essere stato espulso dal Pci che non sopportava il suo dissenso su Stalin; Ernesto Rossi era un liberale “salveminiano” condannato a venti anni di galera dal Tribunale Speciale. E il meno noto, ma alla fine il più eroico tra gli estensori del Manifesto si chiamava Eugenio Colorni. Nel 1941, quando si ritrovò a parlare di Europa e di federalismo con gli altri due, Colorni aveva 32 anni, alle spalle vantava apprezzatissimi studi su Leibnitz, una iscrizione e una militanza molto attiva nel Psi clandestino, era sposato con Ursula Hirshmann, intellettuale socialista tedesca, sorella del futuro premio Nobel per l’economia Otto Albert. Dopo Ventotene, nella Roma occupata dai nazisti, Colorni svolse una pericolosissima azione militante che gli valse l’ammirazione di due capi della Resistenza come Pertini e Nenni, che lo volle caporedattore dell’Avanti! Fu Colorni che, tra un rifugio e l’altro, fece (pericolosamente) stampare per la prima volta il testo, da lui riveduto e corretto, del Manifesto di Ventotene. E proprio questa insonne ed eroica attività antifascista, gli valse l’attenzione degli assassini della banda fascista Koch, che gli spararono in via Livorno, a Roma. È terribile anche solo scriverlo, o leggerlo: ora Eugenio Colorni, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi – proprio loro – si trovano a dover rispondere dell’accusa di essere dei fautori della dittatura. Macchiare quel che di più sacro può vantare una persona che non vive più – il suo corretto ricordo – è una violenza da poveri comizianti, tipico dei leader e dei sotto-leader di questa epoca che ci è dato di vivere. Ma se lo fa un capo di governo, diventa qualcosa di diverso: diventa un “reato” etico e politico.

Ti potrebbero interessare