L’Italia maglia nera sui salari nel G20

di Stefano Amoroso

La ricerca dell’ILO (Agenzia Internazionale del Lavoro dell’Onu, con sede principale a Vienna), che evidenzia come l’Italia sia l’ultimo Paese del G20 in termini di variazioni salariali, visto che dal 1990 al 2020 l’andamento salariale è piatto e, addirittura, dal 2008 è diminuito dell’8,7%, non stupisce nessuno: già in precedenza l’OCSE di Parigi aveva certificato la debolezza dei salari italiani in termini reali, diminuiti del 2,9% nello stesso arco trentennale. C’è da chiedersi cosa sia accaduto negli ultimi anni in cui l’inflazione ha rialzato la testa e ci sono state fiammate inflattive soprattutto nel biennio 2022-2023. Di certo, l’Italia non è cresciuta in maniera significativa negli ultimi decenni, e questo solitamente non aiuta a far crescere i salari in termini reali. Tuttavia, non si tratta solo di questo: l’aumento dei contratti a termine, del lavoro a tempo parziale non richiesto e del lavoro autonomo poco tutelato, certamente incidono negativamente sui salari medi. Molti giovani, anche se dotati di buone qualifiche, entrano nel mercato del lavoro con stipendi molto bassi, che tra le altre cose non li aiutano a staccarsi dalla famiglia ed a rendersi autonomi. I problemi, però, non finiscono qui: certamente influisce anche la scarsa produttività generale del lavoro in Italia e se la produttività ristagna, anche i salari tendono a restare fermi. Inoltre, tra i fattori che pesano sul calo dei salari in valore reale, ci sono la debolezza della contrattazione salariale, con interi settori lasciati scoperti dalla contrattazione collettiva (come i riders, per esempio) ed altri in cui, colpevolmente, il rinnovo dei contratti ritarda di anni, motivo per cui i salari restano ancorati ai parametri di alcuni anni addietro e non vengono aggiornati all’inflazione. Pesano, poi, la forte pressione fiscale e contributiva e gli scarsi investimenti. Il confronto con gli altri Paesi europei è impietoso: mentre in Italia i salari in termini reali ristagnavano, in Germania e Francia sono aumentati del 33%, mentre in Svezia l’incremento è stato del 72% ed in Irlanda dell’82%. Perfino la bistrattata Grecia, dopo anni di crisi e di troika europea intenta a tagliare il tagliabile, nel 2020 poteva vantare salari medi più alti di quelli del 1990. In generale, comunque, l’impressione che si ha dell’Italia è che una famiglia media, in una città media del Paese, non possa vivere bene neanche con due stipendi in casa: si deve necessariamente ricorrere a qualche rendita, come un appartamento d’affittare, o svolgere dei secondi lavori, magari saltuari, che aiutano ad arrotondare. Di fronte a questo sfacelo, il Governo Meloni è stato in grado di fare solo due cose: cancellare il reddito di cittadinanza e ridurre i sussidi alla povertà da un lato, spingendo molti cittadini poveri, disperati, a buttarsi a capofitto nella ricerca di un lavoro qualsiasi pur di sopravvivere, e tagliare il cuneo fiscale. Taglio che, tuttavia, per ora viene finanziato con tagli alla spesa e denaro prelevato ai lavoratori stessi nell’acconto Irpef 2025. Se, invece, si volesse fare sul serio e puntare ad un vero aumento dei salari reali, che servirebbe a tutti e farebbe bene anche alle aziende, che vedono la minaccia dei dazi americani e cinesi abbattersi come scure sui loro conti, bisognerebbe puntare in maniera decisa sull’innovazione e sul taglio del cuneo contributivo: se le aziende fossero più innovative e competitive, e se il lavoro costasse meno, allora sarebbe molto più facile assumere lavoratori qualificati e pagarli in maniera adeguata.

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