La strage dei giornalisti

di Giada Fazzalari

Indossano l’elmetto senza essere soldati. Sono sul campo di battaglia ma non combattono. Sono disarmati, ma hanno una macchina fotografica, un taccuino, una penna, un kit di pronto soccorso. Prima della guerra a Gaza i giornalisti, come gli operatori umanitari, rappresentavano il coraggio al servizio della verità e della vita, figure sacre che chiunque sentiva il dovere di rispettare. Inviati di guerra, reporter, medici, infermieri, un tempo, combattevano una guerra disarmata dentro la guerra vera, per informare e salvare vite. La combattono ancora. Solo che non sono più considerati figure sacre, inviolabili, ma facili bersagli. E muoiono. A Gaza i sanitari sono un bersaglio perché curano i palestinesi, attività poco apprezzata da chi cerca di cancellare l’esistenza stessa dei palestinesi. E così medici e infermieri muoiono sotto le bombe e sotto le pallottole dell’esercito di Netanyahu: oltre mille in un anno e mezzo. Quattordici, tra operatori umanitari della Mezzaluna Rossa Palestinese e protezione civile solo nell’ultima settimana. Ma sono un bersaglio anche i giornalisti, perché raccontano la disperazione, le atrocità, i massacri, la fame, e li raccontano da una parte sola solo perché da un anno e mezzo tutto questo orrore è subito solo dai civili palestinesi: sono stati uccisi più di duecento reporter. 209, fino ad ora. Senza le centinaia di testimonianze audiovisive che sono giunte sui nostri schermi grazie al coraggio di quei giornalisti, non avremmo chiare le proporzioni della tragedia palestinese e forse faticheremmo a credere a molte delle evidenze distopiche via via emerse sulla condotta bellica di Israele. Israele ha rigettato più volte la petizione dell’Associazione della Stampa estera che chiedeva libero accesso dei giornalisti a Gaza. Non è possibile raccontare l’orrore a Gaza, fare i giornalisti a Gaza, a meno di non esservi già intrappolati all’interno, come i reporter palestinesi. Il primo – il 13 ottobre 2023 – è stato il libanese Essam Abdallah dell’agenzia Reuters, ucciso dall’artiglieria israeliana mentre si trovava in un punto d’osservazione su una piana nei pressi di Alma Al Shaab, nel sud del Libano, non lontano dalla Linea Blu. Era possibile leggere chiaramente la scritta “Press” sul giubbotto antiproiettile. L’esercito israeliano gli ha sparato addosso per ben due volte. Il primo è stato Essam Abdallah. L’ultimo, purtroppo, deve ancora arrivare. A queste vittime della feroce fame di potere che è il motore di questa guerra, dobbiamo il nostro impegno quotidiano a gridare al mondo ciò per cui sono morti, col sogno di veder sorgere un giorno in cui non si debba più piangere per le vittime della guerra. E da socialisti, prima ancora che da giornalisti, continueremo a farlo.

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