di Lorenzo Cinquepalmi
Ci sono 250 chilometri della costa orientale del Mediterraneo, tra il sud del Libano e l’est dell’Egitto, in cui si gioca il destino del nostro essere umani. Un fazzoletto di terra senza pace ma carico di valori spirituali che proprio alla pace dovrebbero condurre: terra promessa per gli ebrei, terra santa per i cristiani, porta del cielo da cui Maometto si ricongiunge ad Allah. Proprio questo carico spirituale è la molla con cui si muovono in guerra, da secoli, enormi masse disposte a immolarsi in nome di ideali che, al contrario, sono di pace e di fratellanza. La guerra è un affare molto più redditizio della pace, soprattutto quando si è avventurieri come Netanyahu, come i vertici di Hamas, e, da ultimo, come Trump. Se mettiamo in fila gli elementi dello scenario abbiamo: uno stato, Israele, con una guida politica che è un insulto ai suoi ideali fondativi e che massacra con le bombe decine di migliaia di inermi, di donne, di bambini, con una tale mancanza di proporzione rispetto agli obbiettivi militari plausibili da legittimare il sospetto di una volontà genocida; e un’autorità di governo palestinese a Gaza dominata da un’organizzazione terroristica che, conquistato il potere col voto diciotto anni fa, ha abolito sia le elezioni che la libertà e alimenta uno scontro infinito con Israele da cui ricava sia il potere che la gestione di enormi finanziamenti da tutto il mondo arabo. E mentre a Tel Aviv e Gerusalemme gli israeliani scendono in piazza ormai da anni contro il premier sostenuto da ultradestre e ultraortodossi, anche a Gaza i palestinesi finalmente protestano contro una leadership che ha trasformato le loro case in macerie e i loro figli in cadaveri in cambio del perpetuarsi del suo potere; nei giorni scorsi un dimostrante palestinese è stato rapito, torturato, ucciso e scaricato morto da Hamas sulla porta di casa: un’azione dimostrativa che ricorda tanti colpi di coda di satrapi morenti. E mentre la fornace della guerra divora anche un migliaio di operatori sanitari, due centinaia di giornalisti, decine di funzionari delle Nazioni Unite, della Croce, della Mezzaluna e della Stella di David Rosse, cancellando due secoli di garanzie a tutela di chi va in battaglia non per combattere ma per soccorrere, per informare, per costruire il dopo, il potere della speculazione, ormai insediato alla Casa Bianca, progetta di scopare il pavimento di quella costa gettando in discarica macerie e anime per costruire un altro paradiso balneare per ricchi. Eppure, il mondo non è dei Trump, dei Musk, dei Netanyahu, o dei tagliagole di Hamas. Il mondo è degli uomini di buona volontà: quelli che scendono in piazza a Tel Aviv e a Gaza, senza aspettarsi niente in cambio se non una speranza di pace e di progresso. Finché ci saranno stati in cui riesce a prendere il potere e a mantenerlo gente come Netanyahu o Putin, la pace non solo sarà a rischio ma dovrà essere conquistata e difesa anche con le armi: è stato così con Hitler e Stalin, è così an- che oggi, in un tempo in cui neppure il Paese che per decenni ha, sia pure in modo talora controverso e ambiguo, guidato l’occidente, è rimasto immune dal contagio della specula- zione reazionaria che fa del populismo il suo strumento di scalata dei governi. Riportare la pace sulla costa che è la culla dello spirito è una sfida per chiunque, credente o ateo, e non è certo lasciando questo compito a Netanyahu e Trump che la vinceremo. La civiltà che ruota intorno al Mediterraneo e da cui viene il modello europeo di tolleranza e benessere, ha sulle rive orientali del suo mare le radici più antiche: lasciarle recidere sarebbe un suicidio. A Gaza, Gerusalemme, Acri, Betlemme, sono ancora custoditi i semi di un futuro in cui le ricchezze della terra possano arrivare ai figli di Palestina e di Israele e non solo ai cacicchi che ne usurpano la leadership. Ed è compito di ogni uomo libero fare di tutto perché accada.