di Giada Fazzalari
Perché l’8 marzo non diventi il giorno delle recriminazioni e del vittimismo, del qualunquismo e del trionfo delle battaglie lessicali che molto hanno a che fare con la fuffa e poco con la sostanza delle cose, conviene guardare a questo giorno con lucidità e spirito laico. Il refrain è noto: decenni di battaglie per la parità, un secolo di lotte per l’autodeterminazione delle donne, sono serviti a qualcosa? Un po’ sì, un po’ no. Certo, a ben guardare, già nel 1890 Anna Kuliscioff, anarchica e rivoluzionaria russa, madre del socialismo italiano, uscì con “Il monopolio dell’uomo”, un concentrato di idee di una modernità sorprendente: “Non posso ammettere che debba servire un’unità di paragone. La donna non è né superiore, né inferiore; è quel che è. E non v’è ragione ch’essa si trovi in condizioni inferiori” – scriveva 135 anni fa. Ed è proprio qui il punto. Un Paese che anela l’istituzione, per legge, di quote rosa e che non si fonda dunque sul merito indipendentemente dal genere, è la vera spia dell’arretratezza culturale di una società che, di fatto, è ancora drammaticamente patriarcale. Ma se guardiamo ai numeri, che dicono molto sulla parità di genere in un mondo in cui i robot ma non le donne sono considerati capaci di sostituire l’uomo, si potrebbe persino riscrivere un nuovo titolo di quel trattato: “Il monopolio dell’assurdo”. Qualche esempio, tra i più emblematici: alle ultime elezioni politiche sono state elette 86 donne su 600 seggi, appena il 31% del totale. La squadra di governo conta 6 donne e ben 18 membri uomini. La fotografia di una esclusione quasi sistematica del colore rosa dalle nostre istituzioni. Il potere in generale, in Italia, può essere tradotto così: una vera e propria gerontocrazia di uomini che rappresentano l’85% della classe dirigente del Paese, a fronte del 15% di posizioni di vertice ricoperte dalle donne. Verrebbe da chiedersi, rischiando di porre domande apparentemente pleonastiche, per quale ragione, se le donne rappresentano la metà della società, non debbano rappresentare anche la metà del potere politico ed economico. Ma tant’è. Dove il gender gap colpisce in modo più drammatico, è sui salari: le retribuzioni medie degli uomini sono superiori del 29% rispetto a quelli delle donne. Una situazione che ci pone in una condizione di inciviltà e di fanalino di coda nel confronto con i Paesi avanzati. Perché non è solo ingiusto, ma rende alcune donne in condizione di dipendenza e, dunque, di mancanza della cosa più preziosa che abbiamo: la libertà. Il tema della parità di genere, dunque, è più che mai politico. Per la prima volta nella storia, al vertice di palazzo Chigi c’è una donna che, però, incredibilmente non è sensibile al tema. Spetta alle opposizioni, alla sinistra, battersi per una vera parità. Non scaldando le curve. Non indignandosi e basta. Non combattendo insensate battaglie lessicali (“la presidenta”, se ci pensate, suona pure malissimo). Rimboccandosi le maniche e facendo una opposizione intransigente, proprio sul tema della parità, ad un governo guidato da una donna che dimentica le donne.