di Lorenzo Cinquepalmi
Il governo Meloni conta su una maggioranza quadripartita in cui il primo partito, Fratelli d’Italia, che esprime la presidente del Consiglio, ha, da solo, un peso elettorale superiore alla somma degli altri tre, avendo quasi quintuplicato i suoi voti in pochi anni. La seconda e la terza forza, Forza Italia e Lega, che pressappoco si equivalgono, hanno entrambe un passato da partito di maggioranza relativa ma hanno visto ridursi grandemente il loro peso. Infine, Noi Moderati, miracolata da una legge elettorale che di democratico ha assai poco. Questo quadro dei partiti del centro (poco) destra (molta) serve a capire perché le tre forze minori abbiano classe dirigente e personale politico solidi e sperimentati, ed esprimano posizioni politiche omogenee al loro interno, ancorché non sempre rispetto al resto della maggioranza. Altra situazione, invece, all’interno di Fratelli d’Italia, passata dal 5-6% al 28% dei consensi in pochi anni, avendo però una classe dirigente dimensionata sul dato originario. Le conseguenze di questo deficit sono plurime, ma le più evidenti stanno nella mediocre qualità dei personaggi indicati dal partito ad assumere cariche istituzionali, tra l’altro con sfumature chiaramente familistiche, e nella mancanza di una sensibilità politica comune a tutto il partito rispetto a temi essenziali, come la politica estera o i diritti fondamentali. In particolare, sulla politica estera, all’attitudine versipelle della presidente del consiglio Meloni corrispondono, tra le forze di maggioranza, sensibilità e posizioni assai diverse. Lo scenario internazionale di questi mesi, segnatamente a partire della presidenza Trump negli Stati Uniti, ha stravolto paradigmi consolidati da decenni su ruolo e operatività della NATO, e da anni sulla difesa del diritto internazionale rispetto alle scorribande russe ai margini orientali e sud orientali d’Europa. La coesione interna ed esterna dei partiti della maggioranza di governo è puramente nominale rispetto a un’Unione europea posta di fronte all’alternativa secca che vede, da un lato l’evoluzione verso una grande entità federale, con una politica estera e di difesa comuni e la proiezione verso l’unificazione del bilancio, delle politiche fiscali e di quelle economiche, e dall’altro la marginalizzazione sua e dei suoi stati membri dalle grandi decisioni globali. C’è grande ambiguità sulle intenzioni della maggioranza rispetto all’Europa di domani, al ruolo della NATO, al rapporto con Trump e con Putin, alla difesa dell’integrità ucraina, al posizionamento italiano riguardo alle iniziative che stanno maturando a opera dei principali stati dell’Unione: Germania, Francia, Spagna, Polonia, Paesi che con l’Italia fanno da soli il grosso del continente e che cominciano a far filtrare l’intenzione di intendersi nel disegnare il futuro politico europeo senza le pastoie dell’unanimità. La politica estera della presidente del Consiglio Meloni, leader di Fratelli d’Italia, non è affatto in sintonia con quella del ministro degli esteri Tajani, segretario politico di Forza Italia nel mentre che gli auspici espressi dal vicepresidente del consiglio Salvini, segretario politico della Lega, sono sideralmente distanti da quelli di Tajani ma anche alquanto differenziate da quelle di Meloni la quale, per di più, deve fare anche i conti con le attitudini variegate e incoerenti del personale politico che ha raccattato lungo la crescita tumultuosa del suo partito. Insomma, la maggioranza esiste solo perché tenuta insieme dal potentissimo collante dell’esercizio del potere, in un quadro di assoluta mancanza di basi teoriche e ideologiche nei partiti che la compongono. Con un’abusata citazione, verrebbe da dire che la confusione è grande sotto il cielo, e che la condizione potrebbe essere eccellente per un’opposizione socialdemocratica dotata di quelle basi teoriche che di là mancano. Il condizionale, però, dice tutto.