L’amico americano

di a.f.

Più che un incontro tra uomini di Stato, potremmo dire che è parso quello tra due ottimi amici, che non hanno lesinato vicendevoli elogi. E non è mancato un tocco di megalomania. “Sono il miglior presidente che Israele abbia mai visto”, ha detto Trump in una breve dichiarazione nello Studio Ovale della Casa Bianca dopo il colloquio con il premier israeliano. Ed anche Benjamin Netanyahu non si è risparmiato: “Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, è un campione per lo Stato di Israele – ha detto – ed è encomiabile l’amicizia da lui mostrata nei confronti di Israele. Dice le cose e poi le fa, e questo è motivo di rispetto da parte del popolo ebraico”. Un forte sodalizio, quindi, quello tra il presidente americano ed il premier israeliano, sul quale pende un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra. Nei colloqui è riemersa l’idea trumpiana di “spostare” i palestinesi da Gaza per trasformare quei territori in un grande resort costiero; una sorta di “via libera” al disegno del governo israeliano di eliminazione del popolo palestinese da Gaza, mentre sugli altri dossier (dazi verso Israele, Iran e Turchia) il Tycoon si è dimostrato molto meno disponibile, mantenendo di fatto una posizione di chiusura che non aiuterà Netanyahu nelle sue questioni aperte di politica interna. Anzi, a tratti durante il colloquio tra i due leader, sembrava essere riproposta la situazione paradossale che qualche settimana fa aveva visto all’angolo, come oggi Bibi, il presidente ucraino Zelensky. Trump resta irremovibile sui dazi, ama sentirsi al centro dell’attenzione e gode nel vedere al suo cospetto i leader degli altri Paesi, non importa se storici alleati o meno. Che Netanyahu si sia dimostrato compiacente, non sorprende: sa bene che senza l’aiuto dell’amico americano rischia un isolamento che, più che il suo Paese, interesserebbe direttamente più il suo futuro personale, politico e giudiziario. Resta la perplessità nel vedere ed ascoltare i leader di quelle che dovevano essere due grandi democrazie, spostare così in basso l’asticella di un dialogo politico e diplomatico. Il tutto, mentre a Gaza si muore ancora.

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