Intervista a Matteo Pucciarelli: «La guerra comincia con le parole. La destra si lava la coscienza antisemita appoggiando Israele»

di Giada Fazzalari

Avere più cura delle parole, dando voce a chi lotta per la pace è il compito di chi fa informazione in questo nuovo mondo animato da guerre feroci. In Medio Oriente come in Ucraina. Matteo Pucciarelli, firma di punta de ‘la Repubblica’, è autore di un fortunato libro-reportage il cui senso è tutto nel titolo: “Guerra alla guerra” (Laterza): “La pace non è un ‘dato’, ma una conquista” – si legge nel lavoro di Pucciarelli. “Il prodotto di un impegno. Richiede lotta, sofferenza tenacia”. Nello scontro strumentale di civiltà – è il senso – hanno stentato ad emergere le idee, l’etica ed il rigore del pacifismo. Una parola, quest’ultima, abusata e forse tradita nella sua essenza. Una parola che l’autore snocciola fino in fondo ma manipola con delicatezza.

In Medio Oriente si sono riaccese le tensioni, la tregua si è interrotta e sono ricominciati i bombardamenti sulla striscia di Gaza, mentre la percezione dei cittadini israeliani, in questo anno e mezzo di guerra, sembra essere cambiata. Come se ci fosse una sorta di assuefazione collettiva…

«Le manifestazioni di piazza contro il governo Netanyahu e la sua riforma della giustizia sono iniziate già prima del 7 ottobre, quando però non c’era per gli israeliani il grande tema irrisolto della Palestina. Oggi, nonostante si susseguano manifestazioni contro il governo, sul tema della risposta militare contro la Palestina c’è un vasto consenso all’interno della società israeliana. Più che assuefazione, io credo che da troppi anni ci sia per appunto la rimozione della questione palestinese. Manca la consapevolezza che la sicurezza di Israele sia strettamente collegata alla necessità di risolvere la questione palestinese. Non ci sarà mai pace per Israele senza una patria anche per i palestinesi».

Che però Netanyahu ha detto chiaramente di non volere.

«Prima del 7 ottobre, anche la destra israeliana più radicale sul piano teorico sosteneva che prima o poi anche i palestinesi avrebbero avuto il diritto al riconoscimento del loro Stato. Oggi questa prospettiva è stata completamente smentita dai fatti. Ora è considerato normale parlare di “Grande Israele”, che consiste nel presupposto che non ci sia più la Palestina».

Il tema dei “due Popoli due Stati” sostanzialmente non è più un tema…

«Noi in Europa, così come la sinistra israeliana, ci laviamo la coscienza con questo che è diventato uno slogan. Ma nella realtà dei fatti – e forse anche della maggioranza della popolazione israeliana – questo non è più un orizzonte considerato praticabile. È come leggere i fatti con le lenti del passato».

Come si è posto a tuo avviso il governo italiano di fronte alla questione mediorientale? E di fronte al numero impressionante di morti civili?

«Ha assunto un atteggiamento di afasia totale. Non è riuscito a dire una parola di reale solidarietà con la popolazione palestinese. Il centrodestra ha liquidato delle mozioni in parlamento che si rifacevano alla necessità di riconoscere lo Stato palestinese e di fatto c’è un’adesione quasi acritica alle politiche del governo israeliano. Non dimentichiamo che Salvini è andato poche settimane fa a incontrare quello che è considerato un criminale di guerra dalla Corte Penale Internazionale».

Sulla testa di Netanyahu pende un pesantissimo processo per corruzione, di fronte al quale sarebbe chiamato a rispondere se cessasse la sua carica di presidente.

«Infatti non ha alcun interesse a far cessare la guerra e anzi, al contrario, è pronto a portarla avanti a tempo indeterminato. In caso contrario la sua carriera politica terminerebbe».

Di fronte a questa strage di civili, perché questo silenzio della destra di governo?

«Penso che la destra abbia un peccato originario rispetto alla propria storia. Oggi tentano, a torto, di lavarsi la coscienza rispetto al passato antisemita e alla persecuzione degli ebrei avendo una posizione ultra allineata con il governo di Israele. Pensano che questo possa ridare loro una patente di legittimità politica a livello internazionale. La destra fa più fatica a dire delle cose contro le politiche di Israele temendo che questo gli venga addebitato nel conto del passato, e in alcuni casi anche presente, antisemita».

E di segnali alla destra europea il premier israeliano ne ha dati…

«Netanyahu ha invitato a Gerusalemme, per un incontro internazionale sull’antisemitismo, tanti rappresentanti delle destre estreme e radicali europee. È chiaro che la destra sia alla ricerca del bollino di legittimazione da parte di Israele».

È tornato un sentimento antisemita, a tuo avviso, dopo quel 7 ottobre?

«In alcuni Paesi del mondo ebraico c’è chi comincia a temere per la propria incolumità. La paura quindi è reale, esiste. Fa impressione l’odio in rete verso Liliana Segre, ogni volta che viene tirata in ballo sul Medioriente, come se dovesse lei personalmente giustificarsi per qualcosa. Sono dimostrazioni di un antisemitismo latente. Dopodiché non parlerei di “caccia all’ebreo”: ad Amsterdam, ad esempio, non c’è stata. È sbagliato addebitare agli ebrei in quanto tali responsabilità di ciò che fa il governo di Israele. Sarebbe però anche utile che ci fosse anche in questo caso meno conformismo da parte dei vertici delle comunità della Diaspora, che di fatto giustificano ogni azione di Israele. Questo aiuterebbe, secondo me, anche a fare meno confusione nell’opinione pubblica tra ebrei e Israele».

Secondo te, nel racconto della guerra, talvolta i giornalisti hanno aizzato un po’ le curve?

«Il problema è spesso quel mondo di editorialisti o commentatori che banalizza le questioni e trasforma il dibattito in tifo, gettando benzina sul fuoco. I giornalisti hanno il dovere di saper spiegare e raccontare la complessità. E troppo spesso non avviene».

Nel tuo ultimo libro, “Guerra alla guerra” parli di narrazioni tossiche, riferendoti a mistificazioni, distorsioni delle parole quando si racconta la guerra…

«Le guerre cominciano sempre dalle parole. La bomba che cade è l’ultimo atto di un processo cominciato molto prima con le parole, col modo in cui noi esprimiamo o deformiamo alcuni concetti. Ad esempio, sin dalla pandemia, l’approccio del linguaggio che abbiamo utilizzato con questi continui riferimenti alle questioni belliche – medici in trincea, il coprifuoco, la guerra al virus – nell’opinione pubblica ha “normalizzato” il concetto di guerra. Nel giro di cinque anni è successo qualcosa che noi credevamo impossibile, cioè che potessimo pensare possibile di vivere dentro una guerra. La commissaria europea che si fa i video con il kit di sicurezza per sopravvivere alla guerra ne è la dimostrazione. Quando si banalizza il concetto di guerra o di risoluzione violenta di un conflitto, vuol dire che la stai rendendo possibile. Sono convinto che i giornalisti e il mondo dell’informazione in generale dovrebbero avere la responsabilità enorme di avere più cura delle parole, dando voce a chi lotta per la pace».

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